NOTIZIE DAL MONDO
La norma prevede che ogni
strumento finanziario preassemblato (cioè fondi comuni
d'investimento, investimenti assicurativi, prodotti strutturati,
ecc.) venduto ad investitori non professionali sia accompagnato da
un documento informativo particolarmente semplice e breve (massimo
3 pagine) che dovrà contenere tutte le informazioni rilevanti (il
documento viene chiamato KID, che sta per Key Information Document)
per fare una scelta d'investimento consapevole.
Lo schema del documento dovrà essere tale da rendere facilmente
confrontabile per ogni investitore le varie proposte che gli
vengono sottoposte sulle questioni centrali come: tipo
d'investimento, costi, rischi, ecc.
Avere un documento informativo molto sintetico per tutti i prodotti
finanziari venduti direttamente agli investitori è una cosa
positiva, ma questo è solo un primo passo per tutelare
concretamente tutti gli investitori, specialmente quelli più
deboli: una fetta molto consistente di risparmiatori continuerà a
non leggere neppure il KID
Purtroppo una fetta molto significativa di clienti delle banche è
(o si ritiene) completamente incapace di leggere anche informazioni
molto semplici e brevi col risultato che si finisce ad essere più o
meno “raggirati” (parliamo di almeno il 30% dei risparmiatori
italiani). La soluzione più semplice a questo genere di
problemi è quella della scelta
standard (vedasi approfondimento
qui sotto).
Ovvero, va benissimo fornire le informazioni in un formato
sintetico e facilmente comprensibile per investitori non
professionali, ma insieme a questa proposta dovrebbe essere data
l'alternativa standard. Un qualsiasi cliente dovrebbe poter avere
un'opzione “di base”, un po' come avviene per il mercato
dell'energia elettrica con il “contratto di maggior
tutela”.
Questa sarebbe la vera rivoluzione nel campo della tutela degli
investitori più deboli.
La scelta standard. Una riforma radicale
per una vera tutela del
risparmio.
Dati tratti dal sito ADUC a
cura del dr. Pedone
Il principio base che ispira
tutta la normativa europea in materia di tutela del risparmio è il
così detto principio della “disclosure”. Si ritiene, cioè,
che si tuteli l'investitore costringendo l'intermediario a fornire
“tutte le informazioni necessarie per fare una scelta
d'investimento consapevole”. Questo può apparire un principio
intelligente, perfino incontestabile, ma in realtà è totalmente
sbagliato poiché la grande maggioranza degli investitori non si
ritiene capace di comprendere quelle informazioni. Il principio
della “disclosure” si è trasformato, nella sostanza, in una serie
di formalismi applicati solo sulla carta attraverso mille
“firmi qui... qui e.... qui!” con i quali i clienti
dichiarano di aver ricevuto, e talvolta anche compreso, delle
informazioni che in realtà non hanno mai letto. Questo fa sì che le
banche possano continuare a vendere prodotti che non hanno alcuna
ragione di esistere perché sanno che con la loro forza vendita
potrà approfittare dell'ignoranza dei loro clienti sottraendogli,
così, dei soldi per prodotti finanziari che mai avrebbero
sottoscritto se solo avessero una cultura finanziaria
adeguata.
La strada è quella di elevare la cultura finanziaria degli
investitori: rimane però sempre una fetta di persone che non ha gli
strumenti intellettivi minimi per partecipare, con profitto, a
nessun corso, per quanto base, di educazione finanziaria. Coloro
che sarebbero disponibili a partecipare a dei corsi per apprendere
come non essere gabbati dagli intermediari finanziari sono
l'eccezione, non la regola.
Il danno che questi investitori inconsapevoli fanno a loro stessi è
un danno che fanno, nel complesso, all'intera società. Risparmi che
vengono distrutti a favore degli utili del sistema finanziario sono
un danno economico per l'intera società. E' un dovere
costituzionale tutelare queste persone. Come farlo concretamente e
non a parole?
La soluzione consiste nel ribaltare completamente l'impianto
filosofico della normativa attuale.
In primo luogo gli investitori dovrebbero essere classificati in
tre categorie: 1) investitori con
esperienza comprovata dal superamento di
uno specifico esame; 2) investitori assistiti da professionisti o
strutture (come i club d'investimento presenti in alcune nazioni
europee) che si assumo la responsabilità delle scelte
dell'investitore; 3) investitori senza esperienza.
Le prime due categorie di investitori sono liberi di investire come
desiderano e gli intermediari finanziari devono fornire loro tutte
le informazioni previste dalla normativa attuale.
Per il terzo gruppo di investitori, che rappresenterà la
grandissima maggioranza, ogni operazione dovrebbe essere ricondotta
ad un obiettivo finanziario secondo uno schema unico stabilito
dall'autorità di vigilanza (in Italia dalla Consob). Le esigenze
per le quali si investono dei soldi si possono ridurre ad una
casistica piuttosto ristretta che si conta sulle dita di una
mano.
Per ciascun obiettivo
d'investimento l'autorità di vigilanza deve identificare
uno strumento standard (2)
adeguato all'obiettivo dichiarato dall'investitore. Lo strumento
standard non è, ovviamente, il “migliore” strumento possibile. In
primo luogo l'aleatorietà è connaturata al mondo della finanza e la
scelta “migliore” ex-ante è una cosa molto complicata da
determinare. Questa scelta standard, però, è l'opzione selezionata
dall'autorità di vigilanza che evita di indicare prodotti
assolutamente pericolosi. Se l'investitore si vuole avventurare nel
mondo della finanza alla ricerca di un portafoglio finanziario
migliore delle opzioni standard, deve dimostrare di avere le
competenze, superando ad esempio uno specifico esame, oppure deve
essere assistito da qualcuno competente che si assume le
responsabilità delle scelte dell'investitore europee (come in
Francia ad esempio, dove è prevista anche un’agevolazione fiscale
fino a un certo importo per chi fa investimenti assistiti dai club
d'investimento).
Un cambiamento radicale di questo tipo implicherebbe per gli
intermediari finanziari una significativa diminuzione dei profitti.
E' ovvio che sarebbe illusorio pensare che una qualsiasi
maggioranza politica possa approvare qualcosa del genere da un
giorno all'altro. Si potrebbe pensare, quindi, a qualcosa di più
graduale. Invece di prevedere l'impossibilità per la banca di
proporre gli strumenti finanziari non standard ad investitori senza
comprovata esperienza e non assistiti, si potrebbe, inizialmente,
prevedere l'obbligo di indicare insieme alla proposta della banca
anche lo strumento standard selezionato dall'autorità di vigilanza.
Questo consentirebbe alle banche, piano piano, di modificare il
proprio modello di business.
(1) Alcuni anni fa, un
economista piuttosto famoso, Richard Thaler ha scritto un bel libro
insieme a Cass Sunstein dal titolo “Nudge. La spinta gentile.
La nuova strategia per migliorare le nostre decisioni su denaro,
salute, felicità”. La tesi di base della finanza
comportamentale è che gli investitori, nel compiere le scelte
d'investimento, sono soggetti ad una serie di errori mentali
ineliminabili (ancoraggio mentale, conti mentali, eccesso di
fiducia, ecc. ecc.). Thaler e Sunstein sostengono che il modo
miglior per agevolare le scelte economiche dei cittadini è di
promuovere "trucchetti" o "pungoli" che sfruttino gli "errori
mentali" degli esseri umani a loro vantaggio e non a loro
svantaggio. Nel campo delle scelte d'investimento uno dei
"trucchetti" più utili potrebbe essere la "scelta standard". Le
autorità di vigilanza (Consob, Banca d'Italia, ISVAP, Covip)
dovrebbero formulare delle scelte standard per le più comuni
esigenze di investimento e protezione dei risparmi.
L'investitore dovrebbe essere informato dall'intermediario
finanziario, prima di tutto, della scelta standard, mentre le
eventuali altre proposte dovrebbero essere illustrate in termini di
differenze rispetto alla scelta standard. Prospettare
all'investitore la scelta standard "spinge gentilmente"
l'investitore inesperto verso un'opzione che difficilmente potrà
recargli dei danni. Probabilmente non sarà l'opzione migliore in
assoluto, ma dovrebbe essere -ragionevolmente- una scelta prudente
ed esente da rischi facilmente eliminabili. Si tratta di un
approccio attivo alla tutela degli investitori che rappresenterebbe
un cambio epocale nella politica delle autorità di
vigilanza.
(2) Si potrebbe pensare anche ad un piccolo ventaglio di opzioni
standard per ciascun obiettivo d'investimento. Uno o più opzioni è
una questione secondaria.
Imparare semplici comportamenti dal Premio Nobel W. Sharpe
Tratto dal sito ADUC a cura di Alessandro Pedone.
Chi segue questo sito da tempo sa perfettamente che la favola del bravo gestore il quale, grazie alle sue conoscenze, riesce a scegliere le migliori azioni per rendere di più della media del mercato, è una storia ottima per vendere fondi comuni d'investimento, ma totalmente campata in aria. La media dei fondi comuni d'investimento, anno dopo anno, fa peggio dei mercati di riferimento.
Questo non perché i gestori siano tutti un branco di incapaci. Tutt'altro.
In realtà, in finanza, si concentrano i migliori cervelli (anche perché è il settore dove si guadagna di più). Il fatto è che non possono fare diversamente. E' una necessità matematica che la media di coloro che fa gestione attiva abbia rendimenti netti inferiori alla media del mercato.
Come abbiamo scritto altre volte
il Premio Nobel W. Sharpe, scrisse un memorabile articolo nel quale
avvalendosi delle quattro operazioni matematiche di base dimostrò
che la media del mercato doveva per forza battere la media dei
gestori attivi che investivano costantemente in quel mercato.
Per comprendere il punto ipotizziamo che il mercato sia composto da
due categorie di investitori, quelli che fanno gestione passiva
(acquistano una porzione dell'intero mercato senza mai cambiare) e
quelli che fanno gestione attiva (quindi cambiano costantemente i
titoli nei quali investire in base a presunte capacità di
selezionare gli investimenti migliori).
Gli investitori che scelgono una politica di gestione passiva
avranno un rendimento esattamente pari alla media del mercato. E'
matematico.
Ma se questo è vero, come è vero, anche l'altra categoria di
investitori, nella media, avrà il rendimento medio del mercato (1)
con la differenza che mentre tutti gli investitori passivi avrà
ottenuto lo stesso risultato, gli investitori attivi avranno
ottenuto una grande varietà di risultati che mediamente sarà la
stessa degli investitori passivi.
A ben guardare, però, c'è un'altra differenza fondamentale. Per
vendere e comprare titoli, gli investitori attivi subiscono molti
costi (costi informativi, costi di transazione, commissioni varie,
ecc.). Questo significa che, mediamente, il rendimento netto degli
investitori attivi sarà peggiore di quello degli investitori
passivi.
Questo ragionamento vale per lo stock-picking (cioè la presunta
capacità di selezionare i migliori titoli del mercato) mentre non
vale per il così detto market timing, cioè la presunta capacità di
entrare quando i prezzi sono bassi ed uscire quando i prezzi sono
alti.
Purtroppo, se è vero che i fondi comuni d'investimento (quelli che
non devono investire in un determinato mercato e quindi hanno un
limitatissimo margine per fare “market-timing”) mediamente devono
fare peggio dei loro mercati di riferimento è anche vero che,
secondo tutte le analisi, questa non è la cosa peggiore. La cosa
peggiore è che gli investitori entrano ed escono da questi fondi
nel momento sbagliato ottenendo, mediamente, un rendimento ben
peggiore rispetto a quello conseguito dal fondo (già inferiore a
quello di un fondo a gestione passiva).
Secondo gli ultimi dati di
Morningstar (2) negli ultimi dieci anni, la differenza fra il
rendimento conseguito dai fondi e quello effettivamente conseguito
dagli investitori è stata di circa il 2,5% medio annuo. Perdere il
2,5% medio annuo per dieci anni è una cifra spaventosa! Significa
avere un capitale più basso di circa un quarto. Sicuramente un
danno maggiore di quello che può fare, in media, la gestione attiva
rispetto a quella passiva. I dati si riferiscono agli USA, ma sono
consistenti con le ricerche fatte in altre nazioni.
Uno studio del 2010 della Cass Business School (3) ha mostrato che
la differenza fra rendimenti percepiti dagli investitori e quelli
del fondo è stata dell'1,2% per i nove anni terminati nel 2009.
Altri studi (4) mostravano una differenza superiore al 2% sempre
nel Regno Unito.
A cosa sono dovute queste grandi differenze di rendimento?
Semplice, al fatto che gli investitori scelgono costantemente i
momenti peggiori per entrare e per uscire dai mercati. Quando le
cose vanno male, si spaventano ed escono dagli investimenti più
rischiosi per entrare in quelli meno rischiosi e viceversa.
Usare prodotti finanziari più efficienti è certamente una
componente molto importante del processo d'investimento, ma
purtroppo non è il più importante.
L'aspetto più importante è avere una buona pianificazione
finanziaria, una buona strategia d'investimento e la disciplina per
mantenerla nei momenti difficili.
Note:
(1) Ho notato che, stranamente, questa cosa non viene immediatamente percepita da tutti. Spesso le competenze matematiche, anche quelli abbastanza elementari come queste, non sono proprio spontanee. Allora proviamo a fare una semplificazione numerica. In questa semplificazione i titoli nel mercato sono sempre gli stessi, gli operatori sono sempre gli stessi e sono sempre costantemente investiti nel mercato (non fanno cioè quello che viene chiamato “market timing”). Immaginiamo che all'inizio dell'anno il totale del mercato abbia un valore di 100 miliardi e alla fine di 110 miliardi. Ciò significa che il mercato ha reso, nel suo complesso, il 10% ovvero 10 miliardi. Adesso il 50% del mercato aveva una politica di gestione passiva. Questa ha guadagnato come il mercato, cioè il 10%, ovvero 5 miliardi. L'altra metà del mercato che ha fatto gestione attiva, al lordo dei costi, deve obbligatoriamente aver guadagnato gli altri 5 miliardi, ovvero il 10%.
2) Morningstar è una società usa specializzata nell'analisi dei fondi comuni d'investimento. Negli USA pubblica uno studio denominato “Morningstar Investor Returns”. Una sintesi dello studio si può leggere qui: http://news.morningstar.com/articlenet/article.aspx?id=637022
(3) Clare & Motson (2010) Do UK retail investors buy at the top and sell at the bottom? (working paper) Centre for Asset Management Research, Cass Business School -
(4) Lukas Schneider (2007) “Are UK Fund Investors Achieving Fund Rates Of Return? An examination of the differences between UK fund returns and UK Investors’ returns.” PhD Thesis, July 2007.
Fausto
Bongiorni - presidente
(mail: segreteria@studiobongiorni.com)
Paolo
Brambilla - vice presidente
(mail: paolo@brambilla.net)
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